mercoledì 13 ottobre 2010

Sulle ginocchia di Dio

Non si prega per andare in Paradiso. Si prega per stare contenti con il proprio Dio.

Il primo weekend di ottobre si sono svolti a Sacrofano gli esercizi spirituali della parrocchia di San Frumenzio. A predicare è stata chiamata la teologa Emanuela Terribile, che ha affrontato il tema del silenzio e della preghiera, suggerendo come approfondimento questi due testi di Enzo Bianchi e Michel De Certeau. Le sue riflessioni potrebbero essere utili anche ai lavori della nostra Commissione formazione.

Tutti siamo “capaci” di stare in silenzio.

Emanuela Terribile ha iniziato il suo intervento mettendo in guardia da un atteggiamento tanto ricorrente quanto rischioso, quando si parla di silenzio e preghiera. Quello di pensare di non essere capaci.

C’è sempre qualcuno, normalmente un prete, che è più santo e più bravo di noi. Qualcuno che è capace di fare silenzio, è capace di pregare perché ha la “vocazione”, mentre la mia è una vita “normale”, dunque il silenzio non può essere per me. Noi, insomma, non siamo mai adatti, ci manca sempre qualcosa. E allora, dopo un po’, uno si stufa e lascia perdere. E’ uno dei pericoli maggiori della vita cristiana, non perché non si va in Paradiso, ma perché se rinunciamo al silenzio, mancherà qualcosa a noi. Tutti noi, in verità, abbiamo vite “baraccate” ma benedette. Abbiamo lo Spirito Santo: non è possibile che siamo incapaci. Abbiamo la vita e abbiamo lo Spirito Santo: non ci serve altro, non è dato altro.

L’esperienza quotidiana del silenzio.

A confermare la nostra capacità di fare silenzio, ci viene incontro l’esperienza quotidiana, l’esperienza della vita di ciascuno. Malgrado il rumore che ci circonda, infatti, – ha argomentato la teologa - il silenzio non ci è sconosciuto, possiamo dire di saperne qualcosa: sappiamo innanzitutto che lo cerchiamo, che ne abbiamo desiderio.

Tante e spesso inconsapevoli sono le esperienze di silenzio nella nostra vita. Al cinema, ad esempio, mentre guardiamo un film, noi facciamo silenzio. Anche durante un concerto, mettiamo all’auditorium, noi facciamo silenzio (ce ne accorgiamo quando c’è l’intervallo, ed il silenzio di tutti è rotto dai colpetti di tosse, fino ad allora trattenuti). Non lo pensiamo come silenzio, perché sta succedendo qualcosa. Ma quello è silenzio! C’è poi il silenzio pesante, negativo: quando non abbiamo niente da dire, o non vogliamo parlare con qualcuno. C’è il silenzio degli adolescenti, quando mettono il muso, quando usano il silenzio come una porta chiusa, per tenere l’altro lontano. C’è il silenzio come arma da usare contro l’altro, magari tra marito e moglie. C’è il silenzio di fronte alla malattia, davanti alla morte. C’è quindi il silenzio positivo, il silenzio che parla. Ce lo insegna l’esperienza amorosa, quando non hai bisogno di mettere parole in mezzo, e nemmeno gesti. Si sta bene così, in silenzio.

Il silenzio come disciplina.

Se tutti abbiamo fatto queste esperienze di silenzi – ha ribadito la teologa –, vuol dire che tutti siamo capaci di stare in silenzio, anche di fronte a Dio. Dunque abbiamo la vita, abbiamo lo Spirito Santo, abbiamo l’esperienza del silenzio. Non ci manca niente, non ci serve altro. Se non un grande amore, una grande passione spirituale, e un po’ di disciplina.

Il tema è delicato. Il termine disciplina gode di cattiva fama perché male interpretato. Disciplina non è costrizione – ha spiegato Emanuela Terribile – non è la regola fine a se stessa: questo non si dà mai nel cristianesimo.

La disciplina indica innanzitutto una condizione di vita: la condizione dei discepoli (discepoli di un Amore, oltre che di un Maestro), l’atteggiamento di che è disposto ad imparare, di chi è capace di apprendere. L’amore, la passione, richiedono sempre una certa disciplina, una certa cura, un certo impegno. Anche il silenzio e la preghiera, se si vogliono vivere e imparare, richiedono una disciplina.

La disciplina è organizzazione. Si parla di discipline scolastiche o discipline sportive per dire l’insieme strutturato e organizzato delle nozioni di una certa materia, o delle regole di una certa attività agonistica. Così pure la regola dei monaci è lo strumento/disciplina pensato per organizzare al meglio la loro vita, così come ogni casa, ogni famiglia, ha la sua organizzazione di vita, la sua regola, la sua disciplina.

La disciplina è pratica. Per imparare a fare qualsiasi cosa serve fare pratica. Cucinare tutti giorni a pranzo e a cena è una disciplina, qualcosa che si impara facendolo. In questo senso si capisce che il silenzio, come la preghiera, è una pratica, e la volontà conta meno dell’abitudine/disciplina.

Ma non è obbligatorio – ha ribadito la teologa - non si va in Paradiso pregando o facendo silenzio (per quello basta offrire un bicchier d’acqua a un assetato). Lo si fa se ne abbiamo bisogno. Non si tratta di fare qualcosa in più, ma di fare quello che mi serve. La disciplina è la risposta che la tradizione offre al bisogno di silenzio che maturiamo nella nostra vita.

La paura del silenzio.

Eppure il silenzio mette paura, perché la prima cosa che si sente, nel silenzio, sono i nostri pensieri, proprio quelli che non vogliamo sentire. Il silenzio può essere angoscioso: uno specchio che mi rimanda indietro tutto.

All’inizio è semplice: bisogna solo stare zitti! C’è poi subito da resistere al rumore di se stessi, ma se si ha pazienza, dopo un po’ quel rumore se ne va via. E’ a quel punto che arrivano i guai seri, perché dopo i pensieri viene il nulla. E poi ancora, abbiamo a che fare come mai con il nostro corpo. Un corpo che rimane senza parole, che non deve fare nulla, che si mostra in tutta la sua pesantezza o leggerezza. Che quando si fa sentire, non lascia scampo alla mente (mal di denti…). Che ha una sua autonomia involontaria (il respiro), che non ci appartiene interamente (ci avanza sempre un braccio o qualcosa, quando preghiamo…). L’esperienza del corpo ci mette angoscia. E poi, Dio parla? E come parla? Il cristianesimo non è religione del Libro, ma di un testo sempre interpretato. L’unica parola che Dio ha detto è Gesù. Il logos è Gesù. Dio parla? Si, ma a modo suo, Dio non parla con i nostri fonemi, quando parla Dio fa qualcosa, crea. Gesù è la parola creatrice di Dio.

Se non si fa capire, è un problema Suo…

C’era una suora molto severa, di quelle vecchio stampo. Se ne stava in cappella a pregare, col suo abito nero e il lungo velo, anch’esso nero. La chiamano per un’urgenza improvvisa, non senza timore della sua reazione. Lei invece si alza, si volta repentina e mentre si aggiusta il velo, nel gesto tipico delle suore, la sentono dire: Ah, io Gliel’ho detto! Se si fa capire, la Sua volontà la facciamo; se non si fa capire, è un problema Suo…!

Ha spiegato Emanuela terribile: ci vuole un grande fede per parlare così a Dio, un grande amore, una grande libertà. Esperienze che nascono nelle vite anche molto semplici, che custodiscono una grande capacità di silenzio.

Per restare sulle ginocchia di Dio

E’ più facile con questo aneddoto capire il perché del silenzio e della preghiera. Non lo facciamo per andare in Paradiso – è il concetto ribadito più volte – Noi siamo già stati salvati. E’ che ogni tanto scivoliamo giù dalle ginocchia di Dio. Il silenzio e la preghiera diventano necessari per risalire su quelle ginocchia:

Si prega per stare contenti, per stare contenti con il proprio Dio; per stare tranquilli, in pace, per poter fare quattro chiacchiere col nostro Dio. Ci vuole per questo una grande intimità e una grande confidenza, ccome i mistici.

La preghiera della confidenza, la preghiera del Tu.

2 commenti:

  1. Grazie, un bellissimo riepilogo.
    Semplice che si può capire ma soprattutto che ti fa venire la voglia di provarci ... si può fare.

    La parola di Dio... "Dio parla? Si, ma a modo suo, Dio non parla con i nostri fonemi, quando parla Dio fa qualcosa, crea"

    Questa frase è come una porta ...

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